IL CAPPOTTO DI CAMMELLO


Come al solito salto di palo in frasca. Volevo scrivere un post riguardante una storia di fantasia sugli Europei del 1992, quando all'improvviso mi è ricapitato in mano un libro che i due scrittori emiliani (uno noto, l'altro un pò meno) che conosco mi avevano recensito in maniera diametralmente opposta. Si tratta di 'Hanno tutti ragione' di Paolo Sorrentino.
I più attenti di voi ricorderanno una citazione dello stesso nel favoloso post "Questioni di soprannomi" scritto dal mio degno compare e, probabilmente, penseranno o che abbiamo un cervello in due o che era destino che ci mettessimo in combutta perchè le passioni che abbiamo tendono a collimare troppo spesso.
Fatto sta che Tony Pagoda, alias Tony P, dopo aver avuto un diverbio con la moglie ed essersi svegliato nel cuore della notte, decide di uscire per le strade della sua Napoli. Sorrentino descrive molto velocemente il cambio d'abito (da pigiama a vestiti "non borghesi") del nostro Tony, ma non scorda di citare dopo pantaloni, camicia e chiavi di casa il... cappotto di cammello.
Alla prima lettura questo dettaglio non mi aveva scardinato, ma ieri (10/02/2012 ndr) mi sono illuminato stile Barbara D'Urso e, dopo una serie di connessioni neurali di pregevole fattura (da Napoli al Napoli, passando per Felice Caccamo e Renato Cesarini), ho deciso che avrei scritto di quello. Del cappotto di cammello.


Pochi sanno, e sicuramente non ne è al corrente Aurelio "il sobrio ed elegante" De Laurentiis, che i primi trofei che entrarono nella bacheca della S.S.C. Napoli vennero conquistati in panchina da un emigrato di ritorno conosciuto come Bruno Pesaola detto "El petisso" per la sua statura non propriamente da gigante.
Figlio di un emigrante marchigiano, nasce a Buenos Aires il 28 luglio 1925, "El petisso" comincia a trattare la pelota con una certa serietà all'età di 14 anni quando viene inserito, divenendo compagno di squadra del leggendario Alfredo Di Stefano, nelle giovanili B del River Plate. Il suo allenatore è un altro emigrato che porta nel cognome un neologismo ancora attuale nel vocabolario calcistico italiano: Renato Cesarini. Quello dei gol che arrivavano ai tramonti delle partite, i gol in "zona Cesarini".
Brevissimo OffTopic: il gol che fece nascere ufficialmente la suddetta "zona" viene segnato da Cesarini il 13 dicembre 1931 in un Italia-Ungheria 3-2.
Questa breve puntualizzazione la faccio perchè ogni storia, sia essa calcisticamente importante o meno, è più interessante se conosciuta in ogni sua sfaccettatura. I dettagli danno aria di casa, di familiarità e, ultimo ma non ultimo, rendono migliori le pietanze servite.

Bruno Pesaola, seconda punta piccola e agile, non sfonda nel River e cerca fortuna pedatoria nel paese che diede i natali al suo babbo. E la trova: tra il 1947 e il 1961, tra infortuni e goals, attraversa Roma, Novara, Napoli (8 anni) e Genova, trovando anche il tempo di esordire nella nazionale italiana il 26 maggio 1957 contro il Portogallo. A quel tempo, come ora, gli oriundi andavano parecchio di moda.
Appesi gli scarpini al fatidico chiodo, "El petisso" comincia la carriera da allenatore nella Scafatese, club di Serie (allora) C-2 in provincia di Salerno. Nello stesso anno il Napoli disputava, con risultati molto vicini all'abisso della (allora) Serie C-1, la serie cadetta. Durante la pausa invernale, la dirigenza partenopea decise di sollevare l'allenatore Fioravante Baldi e di offrire la panchina al giocatore simbolo ed ultimo capitano del decennio appena passato: Bruno Pesaola.
"El petisso" era giunto, da giocatore, a Napoli nel 1952 a 27 anni. Considerato finito dalla maggioranza degli addetti ai lavori, che allora (come ora) dimostravano saggezza, lungimiranza e poca propensione alle "sparate" inutili, Pesaola accumulò 240 presenze e traghettò il Napoli da CAPITANO nel difficle trasloco dal vecchio stadio "Vomero" al nuovo "San Paolo", che si palesò il 6 dicembre 1959 nella sfida amichevole Napoli-Juventus. Arrotando le S e le C come solo gli immigrati sudamericani sanno fare, ricorda Pesaola: "Il trasferimento a Fuorigrotta fu uno choc. Il Vomero era piccolo, col pubblico addosso, era uno stadio familiare, conoscevamo quasi tutti i tifosi. Il San Paolo era un´immensità. E ci toccò inaugurarlo contro la Juve di Sivori, Charles e Boniperti. Ci facemmo coraggio e vincemmo 2-1, gol di Vitali e Vinicio. Al San Paolo non feci mai gol, ma ci stavo per rimettere un occhio. Nella partita col Bari presi un calcio al viso e rimasi cieco per 48 ore alla clinica Mediterranea. Nella partita contro l´Alessandria vedemmo per la prima volta Rivera. Aveva 17 anni e ci fece anche gol".
Tornando a bomba, Pesaola non solo salva il Napoli dalla retrocessione in serie C-1 e lo riporta nella massima serie con un girone di ritorno ai limiti della perfezione, ma, nella seconda volta nella storia del calcio italiano, porta una squadra di serie B a vincere la Coppa Italia (precedentemente c'era riuscito solo il Vado nel 1922). L'oriundo Pesaola, l'argentino-napoletano col cappotto di cammello, mette in bacheca il primo trofeo della storia del Napoli e diventa un profeta nella sua seconda patria.
A metà della stagione successiva l'uomo, come lui stesso ha più volte dichiarato, da quaranta sigarette a partita (in quel tempo il fumo ancora non uccideva) si separa momentaneamente con il Napoli, che verrà risucchiato nella serie B appena faticosamente lasciata.


Correva l'estate del 1964 e la Società Sportiva Napoli era reduce da una stagnante stagione nelle paludose melme della serie B italiana. Per riportare la società e la città nella categoria più consona venne richiamato proprio "El petisso" che, senza batter ciglio, si riprese la panchina degli azzurri.
Detto-fatto: Pesaola conclude la cadetteria in seconda posizione e riporta i "Ciucci" in serie A.
Si narra che "El petisso" per placare il furore dei tifosi napoletani, desiderosi di vedere una squadra votata completamente all'attacco, facesse amplissimi gesti col braccio sinistro ai suoi giocatori come a dire "Attaccate come se non ci fosse un domani", salvo poi quasi di nascosto, col braccio destro, intimargli di stare indietro, di non prestare il fianco agli attacchi avversari. Dicotomia partenopea in piena regola.
Per celebrare l'annata 1965-66 e il ritorno nella massima serie, il Napoli acquistò nel mercato estivo due oriundi la cui fama non necessita di alcuna presentazione: Omar "El Cabezon" Sivori e Josè "Incredibile ammisci" Altafini che conferirono agli azzurri una credibilità sconosciuta all'interno del calcio italiano. Fino ad allora, si capisce.
Il Napoli si classificherà al terzo posto, eguagliando il suo miglior risultato datato stagione 1932-1933 e vincerà la Coppa delle Alpi.
Che cos'è la Coppa delle Alpi? Quante edizioni si sono disputate? Perchè il Napoli venne scelto per disputare la Coppa delle Alpi?
Al link Coppa delle Alpi, le risposte ai vostri giusti quesiti.
Perchè quello che voglio raccontare è un episodio a cui la Coppa delle Alpi fa da cornice, ergo è inutile che vi spieghi tutta la trafila di questo illustre torneo sconosciuto così cervellotico da sembrar creato in Sud America.
In quell'anno le squadre erano suddivise in due gironi e la formula prevedeva una classifica finale unica.
All'ultima giornata Napoli e Juventus erano appaiate in testa e si sarebbero giocate il titolo al fotofinish. Il Napoli giocava a Ginevra contro il Servette mentre la Juventus se la doveva vedere, sempre in Svizzera, contro la Rappresentativa di Losanna e Zurigo (ho già spiegato prima come le regole del torneo, oltre ad essere poco chiare, lasciassero molto spazio all'immaginazione degli organizzatori).
All'intervallo il Servette conduceva 1-0 e Pesaola, irritato da Sivori che giochicchiava con la consueta spocchia, corruppe lo speaker e fece annunciare a tutto lo stadio che la Juventus stava sbancando Zurigo, portandosi virtualmente la Coppa a Torino.
Pesaola conosceva i suoi polli e sapeva che Sivori, dopo essersi lasciato polemicamente con la Juventus ed in particolare con l'allenatore Heriberto Herrera, avrebbe preso sul personale la questione e avrebbe risolto la partita.
Dopo l'annuncio, che i giocatori del Napoli sentirono nitidamente durante il loro rientro in campo, "El petisso" si avvicnò a Sivori e lo punzecchiò: "Lasci la vittoria al tuo nemico Heriberto, bella figura!". Punto nell'orgoglio il "Cabezon" ribaltò la partita praticamente da solo mandando in rete Canè, Bean e Montefusco. 3-1 e Coppa delle Alpi nella bacheca azzurra.

Pesaola stratega, ma soprattutto Pesaola catechizzatore, parlatore e fumatore instancabile. Pesaola uomo d'altri tempi. Pesaola che porta il Napoli al secondo posto nel 1967-68 e che, dopo svariate diatribe societarie ed ambientali, l'anno dopo di trasferisce a Firenze e vince lo scudetto. Pesaola uomo per tutte le stagioni che più avanti si trasferisce a Bologna, vince una Coppa Italia nel 1974 e che regala, prima e dopo un Atalanta-Bologna una delle migliori lezioni di sagacia mediatica che il calcio pre-Mourinho ricordi.


Nelle interviste pre partita "El Petisso" promise un Bologna votato all'offenisività sfrenata e pronto a mangiarsi i bergamaschi in un solo boccone, salvo poi condurre una partita catenacciara fino all'impossibile e portando a casa il tanto agognato punticino.
Nel post partita un giornalista lo apostrofò: "Lei ci ha preso in giro, lei è venuto a Bergamo pensando che siamo stupidi, spieghi perchè allora il Bologna ha giocato in difesa, al contrario di quello che lei aveva detto!". Pasaola allora rispose: "E si vede che l'Atalanta ci ha rubato l'idea".
Pesaola che prende gli insulti per la cessione di Pecci al Torino, Pesaola che va in Grecia e che salva il Napoli nell'incredibile stagione post-mondiale 1982-1983.
Pesaola che risiede a Napoli e che da lì non si muove, perchè "Napoli è come il quartiere della Boca, a Buenos Aires. Colori, gente, chiasso, allegria, favola, canzoni. Ma qui c'è il mare e là c'è solo un canale, il Riachuelo."


Tre sono i cappotti di cammello famosi. Quello di Alain Delon nel film "La prima notte di quiete". L'altro di Marlon Brando ne "L'ultimo tango a Parigi". Film del 1972. Ma il primo, e il più noto a Napoli, fu il cappotto di cammello portafortuna di Bruno Pesaola, allenatore del Napoli, indossato sette anni prima di Delon e Brando e immortalato nelle foto al San Paolo. (cit. Mimmo Carratelli)

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