Cosa ci ha lasciato Alexi Lalas?
Mi sento abbastanza sicuro nel dire:
niente.
Correva l'anno 1994 e, per la prima
volta nella storia del calcio, un Campionato del Mondo non veniva
disputato né in un paese europeo né sudamericano, ma si giocava negli
Stati Uniti d'America.
Nessuno meglio di Elio seppe
trasmettere tutta la perplessità nei confronti di questa scelta
traducendola in musica con “Nessuno allo stadio” in cui,
oltre a chiedersi quale interesse potesse riporre il marito di Lorena
Bobbit nei Mondiali di calcio americani, lucidamente sottolineava
come la manifestazione perdesse di tutte quelle caratteristiche che
sarebbero state scontate se la Coppa fosse stata disputata in un
paese dalla lunga tradizione calcistica:
Nessuno petarda, nessuno fumogena,
nessuno coltella, nessuno bandiera.
Nessuno allo stadio, nessuno che uligana,
nessuno si accalca, nessuno fluidifica,
nessuno sugli spalti, nessuno in panchina.
Nessuno allo stadio, nessuno che uligana,
nessuno si accalca, nessuno fluidifica,
nessuno sugli spalti, nessuno in panchina.
E rivedendo il video, e con esso sia
Feiez che i capelli di Elio, viene veramente tanto magone e io mi
sento pure abbastanza vecchio.
Tuttavia, indipendentemente dal Paese
ospitante, dalla sua credibilità organizzativa e dalle beffe alla
tradizione, una cosa rimane certa, ossia che i padroni di casa, anche
nel caso in cui non abbiano il favore dei pronostici, devono comunque
farsi valere. E gli USA del pallone non sfigurarono, cedendo agli
ottavi solo al Brasile, futuro Campione del Mondo, per una rete a
zero.
Caso vuole che gli Stati Uniti persero
proprio nel giorno del loro compleanno, il 4 Luglio.
La cosa mi colpì enormemente e,
nonostante avessi solo 13 anni, riuscii a realizzare che quella del
calcio non era proprio la loro favola.
Se avessero vinto, ci avrebbero
sicuramente girato sopra un film, un “Miracle”
in chiave moderna, dal tipico spirito pretoriano del “Noi contro
tutti”, dove Capitan Meola e compagni, sulla base della grande
teoria dei sognatori cazzoni ammerregani per cui “le cose
non organizzate riescono meglio” (perché da sempre sembra che “di
necessità, virtù” sia un'esclusiva dell'I have a dream made in USA) e
tirando fuori giusto un ombrello per affrontare l'apocalisse, battono
il Golia della situazione e si consacrano come eroi di una nazione e
di un'intera generazione.
Ma quella volta la storia disse loro
male e il loro Mondiale e la loro favola si conclusero proprio quel
giorno.
Idea tutta mia è che grazie a quella
sconfitta gli americani abbiano imparato molto da noi e noi abbiamo
avuto modo di disimparare molto da loro, e credo che sia stato un
bene per entrambi. Conoscendo i nostri polli credo che probabilmente
quel giorno fossero convinti di vincere esclusivamente perché era il
4 Luglio, ed era quindi loro dovuto per qualche ragione di business
cinematografico, di nazione eletta o di sogno popolare, ma si resero
conto che il Brasile rimaneva il Brasile anche il 4 Luglio, e che in
quello che loro chiamavano soccer non c'era differenza tra
Potenze, Superpotenze e Stati B, insomma, si resero conto che aveva
ragione Elio, che il calcio era un grande rito da rispettare, e che
in una situazione di 11 contro 11 non avevano proprio niente da
insegnare a nessuno.
Le distanze reali e immaginifiche tra
il loro mondo e tutti gli altri s'erano drasticamente ridotte.
Fine della prima parte.
Inizio della seconda parte.
Fin dalla partita d'esordio
l'attenzione di tutti i telespettatori viene immediatamente
catturata, oltre che dalla maglietta carnevalesca degli Stati Uniti,
ricavata in un secchio pieno di varechina, anche dall'ultimo
giocatore inquadrato dalla carrellata, proprio quello alla destra
del fratello brutto di Dave Grohl.
Gli altri dieci sono totalmente avulsi
da ogni contesto, roba che se fossero persone a caso estratte dal
pubblico, nessuno se ne farebbe meraviglia.
Ma l'ultimo ha un suo perché e, di
primo acchito, anche tanti perché no.
Si chiama Alexi Lalas, e oltre al nome
esotico dalle chiare origini elleniche, la bizzarria del personaggio
è evidente: capello rosso-carota folto e fluente, pizzo caprino,
faccia da rock star.
La prima impressione è che sia un caso
umano, uno che col calcio non c'entra nulla, e che non sa nemmeno
distinguere la linea di metà campo da una linea telefonica.
La scena naturalmente è tutta per lui:
come è vero che ogni frutto ha la sua stagione, ogni Mondiale ha il
suo fenomeno da baraccone, e lui ha le carte in regola per
sbaragliare tutta la concorrenza.
Eppure, nonostante tutto, il campo gli
dà ragione, si dimostra un difensore affidabile e generoso, un buon
spazzino che tira giù la saracinesca con puntualità, e qualcuno
dall'altra parte del mondo, certamente anche per ragioni di marketing
legate a trucco e parrucco dell'americano, decide di ingaggiarlo.
Sbarca in Veneto e gioca per il
neopromosso Padova.
Dopo un difficile periodo di
ambientamento in cui appare sofferente in terra ed in ritardo in
cielo, scansa lo scetticismo generale a forza di cucci e spintoni,
diventa titolare inamovibile dei biancorossi di Sandreani, e si
piglia pure la soddisfazione di segnare ai Campioni d'Europa del
Milan.
Giocherà un totale di 44 partite in
Serie A e segnerà altri due gol.
Dopodiché tornerà negli Stati Uniti,
e qualche tempo dopo metterà letteralmente la testa a posto,
passando da barbiere, sarto e bancario.
Ma tutto questo ci interessa poco.
Alexi Lalas, il Rocker di Padova, è
stato una delle ultime figure di puro folklore del nostro calcio.
Nella Serie A del tempo, straseguita e,
di conseguenza, straviziata, le sole cose che contavano erano
divenute prestazioni e stipendi. Ma Alexi era un hippy, moderno se
vogliamo, ma pur sempre un hippy, e questi legacci gli stavano
stretti. Per cui, se in campo faceva il suo, una volta fuori si
scatenava come nessun giocatore faceva più, troppo occupato a
barattare a peso d'oro ogni minuto di allenamento o di partita con
società e dirigenza, troppo impegnato a prendersi sul serio per
ritrovarsi schiavo del personaggio-calciatore.
Proprio per queste ragioni Lalas, dopo
aver trascorso i pomeriggi a giocare a calcio coi ragazzi del
quartiere, la sera si esibiva nelle osterie di Padova, imbracciando
una delle tante chitarre che aveva importato dal Michigan al Veneto e
strimpellando un pezzo della sua band, i Gypsies, per poi rincasare a
notte fonda, tra schiamazzi (come direbbero i carabinieri delle
barzellette “così molesti da essere definiti notturni”) e
pallonate contro i portoni dei garage del vicinato.
Anche quando doveva piegarsi alle
regole del business e del bon ton televisivo, e veniva chiamato a
rispondere in maniera scontata a qualche domanda banale del Mario
Sconcerti del tempo che nessun José aveva ancora mandato in mona, il Rocker di Padova riusciva sempre ad uscirsene
in maniera originale.
"Io penso che Zeman è un vaffanculo", ebbe a dichiarare il nostro eroe.
Purtroppo il video in cui era possibile gustarsi questa intervista è stato rimosso dai canali di Youtube proprio mentre viene pubblicato questo articolo.
Gli altri potevano avere i soldi, ma
lui aveva anima e passione, e questo faceva sì che stesse sempre
dalla parte degli angeli anche e soprattutto quando, in dopo-gara
concitati, provava a spiegare agli agitati tifosi patavini che lui
aveva dato tutto, e che non si poteva sempre vincere.
Calza bene quanto scritto una volta da
Giovanni Arpino:“Gli straccioni di una volta: ciascuno un
fenomeno, matti ma uomini veri”.
Peccato però che agli italiani, che
come diceva Churchill: “perdono le
guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come
se fossero guerre”,
puoi spiegare tutto, ma non che non
si può sempre vincere. Tutt'al più devi trovare capri
espiatori, qualcosa cui aggrapparti a mo' di giustificazione,
insomma: c'è sempre un rimedio per uscirne lerci dentro ma puliti
fuori, perché siamo in Italia, perché accà nisciun' è fess,
e perché siamo esperti nel lavarci la coscienza.
Noi amiamo i flamers, stravediamo per
gli istrioni maliziosi alla Mourinho, viviamo sui provocatori, e il
rapporto è reciproco, tutta gente che non riesce a fare a meno di
noi.
Del resto un paese che in ogni ambito è
retto da secoli di testadicazzocrazie è inevitabilmente terra
fertile per figli di puttana conclamati.
Ed è proprio per questo che, come
anticipavo all'inizio, il Generale Custer dei Colli Euganei a noi
italiani non ha lasciato niente.
Se qualcuno ci divide siam più che
pronti a organizzare comitati a favore o contro, ma i personaggi
peace & love che non pretendono di spiegarci nulla se non le
braccia, da noi non durano tanto; hanno la stessa storia della vacca
Vittoria: morta la vacca e finita la storia.
Alexi Lalas ha brillato come un
petardo, è stato spettacolare quanto breve e qualsiasi testamento ci
abbia lasciato noi non l'abbiamo letto, neppure quando avremmo dovuto
farlo, se non altro per riderci sopra.
Non so voi, ma quando io ho rivisto
Gennaro e Luis mi sono commosso.
E soprattutto Aldo, Giovanni e Giacomo facevano ridere anche quando non si impegnavano.
Come ha detto un mio amico:”un
tuffo al cuore”.
Curiosità: la maglia che Alexi Lalas indossa nel corso di questa straordinaria performance è quella del college dove ha tirato i primi calci, il Rutgers.
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