SEI GRADI DI SEPARAZIONE, OVVERO DELLA TEORIA DEL MONDO PICCOLO: DA MARRAKESH EXPRESS AD EUGENIO FASCETTI.


La Partenza. Marrakesh express.

La Notte degli Oscar del 1992 regalò una grande emozione all'Italia: la simpatica voce di Sly (al secolo Sylvester Stallone) annunciò al mondo che la statuetta per il miglior film straniero era andata a "Mediterraneo" di Gabriele Salvatores.


Nello stesso anno la Danimarca vinceva, da ripescata causa conflitto in Jugoslavia, il primo ed unico campionato europeo della sua storia sbancando la rassegna organizzata in Svezia, regolando 2-0 in finale la solita, coriacea Germania. E, sempre in quel maledetto 1992, il Barcelona conquistava la sua prima Coppa dei Campioni (da quell'anno ribattezzata Champion's League) battendo, senza alcun merito a voler essere precisi, la Sampdoria in una notte di maggio in quel di Wembley.
In tutta sincertà, Mediterraneo non è un film che mi abbia fatto impazzire. Anzi, paragonato a "Lanterne Rosse" (il film che sconfisse nella corsa all'Oscar), risulta ancora più indigesto. Rimanendo nella filmografia di Salvatores, però, c'è un lungometraggio che mi ha sempre fatto tenerezza e, a dirla tutta, mi è persino piaciuto. Risale a due anni prima del sopracitato e si intitola "Marrakesh express". In breve è la storia di un gruppo di amici, inattivo da una decina d'anni, che decide di rivedersi e di intraprendere una spedizione in Marocco (a Marrakesh appunto) per cercare di liberare dalla carcere magrebina un altro membro della vecchia cumpa, al gabbio per possesso di stupefacenti. Il viaggio è lungo e pieno di avvenimenti, alcuni strani, altri divertenti, altri drammatici che porteranno, come da classico risvolto da film on the road, a rendere più importante il percorso rispetto all'obiettivo finale. In linea di massima questo è Marrakesh express, anche perché se uno non se l'è visto mica voglio fare troppi spoiler.
Il perché io voglia citare questo film all'interno di questo blog è presto detto: c'è una scena che mi rimarrà sempre impressa ed è la partita Italia-Marocco "si va ai 10" che i protagonisti giocano sulla spiaggia marocchina contro una delegazione locale. Durante l'incontro c'è una simpatica uscita di Abatantuono/Ponchia che, riferito alla parata di Teresa (la fidanzata spagnola dell'amico in gabbia), esclama: "La grande tradizione dei portieri spagnoli: da Zamora a Zubizarreta!".



Primo grado. Just Fontaine, un mondiale da 13 gol.

Il diciotto agosto 1933 nasce il più grande golaedor della storia d'oltralpe e, come la maggior parte dei campioni di football di quella nazione, non nasce in Francia. Dove nasce secondo voi? Beh, se guardate il punto 1 e siete un pò fatalisti, comincerete anche a capire il perchè del titolo di questo post. Just Fontaine nasce proprio a Marrakesh e comincia a giocare, da 9 fatto e finito, nell'U.S. Casablanca. Venne acquistato dal Nizza nel 1953 e lì si impose segnando 44 reti nell'arco di 69 partite. Fu, quindi, prelevato nel 1956 dallo Stade de Reims (allora la più forte compagine francese) per sostituire Raymond Kopa che se ne era andato nel Real Madrid degli invincibili; il Real di Di Stefano, Puskas, Gento, Santamaria e delle 5 Coppe dei Campioni consecutive. Non certo un Castel di Sangro qualunque. In ogni caso il buon Just si trova appioppato l'ingrato compito di sostituire un campione vero ed amatissimo dai suoi tifosi.
Monsieur Fontaine non si fa pregare e segna, segna e segna ancora. Alla fine dei cinque anni in maglia biancorossa saranno 121 in 127 partite. Ovvero come partire sempre con un gol di vantaggio sugli avversari. Non male, direi. Anzi, come in uno spot di una nota marca di scarpe paladina dello sfruttamento minorile, Just do it. A corredo di questi numeri "alluginandi"(parola di Antonio "Crozza" Conte), Fontaine porta in dote tre Ligue 1, una Coppa di Francia e una finale di Coppa dei Campioni drammaticamente persa contro il Real Madrid degli invincibili e del grande ex Raymond Kopa.
In nazionale, il nostro, esordisce nel 1953 contro la corazzata del Lussemburgo e segna tre gol. Poi rimane fuori dal giro, o comunque non rientra nel novero dei titolari, fino al 1958 anno dei mondiali di calcio organizzati dalla Svezia. E, diventato titolare, in Svezia Just stupisce il mondo del pallone. Ne piazza tre nel morbido esordio vincente (7-3 il finale) contro il Paraguay, ne segna altri due nella sconfitta di misura contro la Jugoslavia (3-2) e sigla l'acuto decisivo nel sudden-death match contro la Scozia vinto dai transalpini per 2-1. Nei quarti di finale la Francia affronta l'Irlanda del Nord che nelle qualificazioni aveva obbligato l'Italia a guardarsi il mondiale da casa. Il punteggio rispecchia la pochezza dei britannici: 4-0, altra doppietta dell'implacabile Fontaine e semifinale in ghiacciaia.
Dalla parte del tabellone dei mangia-rane arriva in semifinale il sempiterno Brasile trascinato da un ragazzetto di colore che ha un nome molto, troppo lungo (come la maggior parte dei brasiliani del resto) e che per comodità viene chiamato Pelè. Ma Fontaine non è uno che si spaventa facilmente e pareggia l'iniziale svantaggio, sporcando la fin lì immacolata rete verdeoro. Peccato di lesa meastà che viene lavato con un sonoro 5-2 finale, che relega i transalpini a giocarsi la finale di consolazione contro i campioni uscenti della Germania Ovest (vincitori in Svizzera in quello che è arcinoto come "Miracolo di Berna" e a cui ha accennato il mio consorte di blog qualche mese addietro).
Finalina pirotecnica che si chiude 6-3 per "les bleus" trascinati dal poker del buon Just che tocca così quota 13 gol in una singola manifestazione. Record insuperato e, senza timore di smentita, insuperabile. Come il tonno in olio d'oliva.



Secondo grado. Nils Liedholm "il barone": in 10 si gioca meglio che in 11.

In assoluto il miglior giocatore svedese di sempre? C'e chi dice di sì, c'è chi dice no, c'è chi non sa e, turandosi il naso, vota ancora DC. In ogni caso stiamo parlando di un giocatore, innanzitutto Campione olimpico con la sua nazionale a Londra nel 1948, che ha fatto dell'eleganza e della costante presenza nelle partite che contano un marchio di fabbrica. Centrocampista di fosforo e di classe pura, di lui racconta Gigi Garanzini di quando San Siro scoppiò in un lungo applauso quando sbagliò il suo primo passaggio, dopo anni di militanza, con la maglia rossonera.
Era il capitano della Svezia che nel 1958 ospitò i mondiali di calcio (pensate un pò, quelli di Just Fontaine!) e trascinò, insieme all'uccellino Hamrin, i padroni di casa al miglior piazzamento di sempre in una competizione mondiale: secondi dietro il Brasile. Il Brasile di Pelè, ergo i primi dei normali. Nils ebbe anche l'ardire di aprire le danze nel pomeriggio del Råsunda di Stoccolma, uccellando dopo appena 4 minuti la retroguardia verdeoro che, come in semifinale contro la Francia, ripresasi dalla sorpresa, vomitò smitragliate di tiri in porta contro gli scandinavi padroni di casa. Un 5-2 che si porta in dote anche la rete più bella mai realizzata (non lo dico solo io) in una finale mondiale. La segna, manco a dirlo, Pelè: stop di petto per saltare il primo difensore, sombrerone al secondo e conclusione al volo di esterno destro. Come direbbe il mio compagno di viaggio: CHE BELLO! MA CHE BELLO!


Aveva un cervello finissimo Nils, che gli permise di intraprendere, con enormi soddisfazioni anche la carriera da allenatore. Vinse uno scudetto al Milan nell'annata 1978-79 e poi si trasferì a Roma, dove le sue gesta rimarranno scolpite per sempre nella storia dell'A.S. Roma. Portò i giallorossi a vincere il secondo scudetto, dopo quello fascistissimo del 1941, scatenando l'euforia di almeno metà dell'urbe e lanciando in orbita giocatori che avrebbero scritto pagine di storia anche con le maglie delle rispettive nazionali. Faceva pochi piagnistei "Il Barone" che, come da titolo del paragrafo, commentava "In 10 si gioca meglio che in 11" ad ogni domanda che faceva riferimenti polemici all'espulsione di un suo giocatore. C'è chi racconta che lo scudetto della stagione 1982-83 a Roma fosse merito di Pruzzo, chi di Falcao, chi di Bruno Conti. Ma io, che come ben sapete condivido il cervello con l'altro scrivente di questo blog, ritengo che il tricolore sia stato cucito grazie alla mossa geniale di spostare il capitano Agostino Di Bartolomei nella posizione di libero, che un centrocampista ad impostare in difesa è meglio avercelo anzichè no. Anche perchè Liedholm fu uno dei primi, se non il primo, a portare il gioco a zona in Italia, patria di catenaccio e contropiede sin dalla notte dei tempi. E anche per questo, che di Gigi Simoni ed Emiliani Mondonico ne avevamo le tasche stracolme già negli anni '70, dovremmo essergli grati. Il bel gioco, la signorilità, l'intelligenza tattica e nella vita. In due parole: Nils Liedholm.



Terzo grado. Agostino Di Bartolomei: Tutto fa un pò male.
 
Anno di suicidi il 1994. In aprile si fa fuori, con una sapiente fucilata, l'angelico eroinomane Kurt Cobain provocando indignazione e sgomento nella società incivile, e permettendo a chiunque di scrivere e di parlare dell'orrendo disagio che nemmeno la musica e l'onnipotenza nirvaniana erano riusciti a curare. Situazioni ingombranti, rock'n'roll ed eroina, beh niente di nuovo sotto al sole pazzerello di aprile. Fiumi di inchiostro gettati al vento se, almeno una volta nella vita, non si è ascoltata "Drain you" ad un volume così alto da pensare di essere il plettro nella mano sinistra del sopracitato Cobain.


Ma, come mia consuetudine, sto divagando.
Alle 10 e 50 del 30 maggio del 1994, nella sua casa di San Marco di Castellabate, la fa finita il capitano del secondo scudetto della Roma. Ma questa è una storia meno mediatica della precedente, non c'è droga, non ci sono (più) folle adoranti, non c'è masochismo. C'è solo un uomo, prima di un grande ex-calciatore, che si sente tradito dal suo mondo. E dalla sua squadra del cuore. E Agostino di Bartolomei, il centromediano fatto libero da Nils Liedholm, abbandona la sua famiglia e la sua vita così, con un colpo autoinferto al cuore dalla sua Smith & Wesson. E con lui finisce al di là dei sogni un pezzo di storia, forse non il più bello ma sicuramente il più romantico, del calcio della capitale. Capitano della Roma di Dino Viola, decisa ad abbattere i poteri forti del nord Italia, a riportare la capitale là dove le sarebbe spettato di diritto: in cima all'Italia e, perchè no, anche all'Europa. Il centrocampista di belle speranze scoperto da Helenio Herrera, che lo fa esordire appena diciottenne contro l'Inter, porta via con sè i rigurgiti acidi di un calcio senza riconoscenza e di una personalità introversa e carismatica, mai dedita all'elemosina, fosse essa di attenzioni o di aiuto. Mai un gesto (una sola espulsione in carriera) o una parola fuori posto, il "DiBa", come veniva appellato dalla curva sud, se ne è andato con la signorilità con cui ha vissuto e giocato. Da leader silenzioso. Un leader che mai perdonò a Falcao di non aver avuto le palle di tirare un rigore in quella finale Roma-Liverpool, e che, passato al Milan, mal tollerò le parole ambigue dell'ex compagno Bruno Conti che lo definì uno “Tranquillo, pulito, che non esce mai dal campo sudato”. Tutto questo dopo un duro scontro tra Di Bartolomei a l'allora centravanti giallorosso Francesco Graziani, scontro che provocò una solenne rissa durante quel Milan-Roma. "Ti hanno tolta la Roma, non la tua curva" recitava lo striscione esposto prima della sua ultima gara in giallorosso (finale di Coppa Italia Roma-Verona 1983-1984) e mai verità fu meglio scritta.


Agostino sperava di poter essere utile, anche da dirigente, alla sua squadra del cuore ma quella chiamata non arrivò mai. Fece un'ultima breve comparsata nel ruolo di commentatore tecnico per la Rai durante i mondiali italiani del 1990, ma poi rientrò nel suo ritiro di San Marco di Castellabate da cui non uscì più.
Curiosità: a lui si è ispirato Paolo Sorrentino per il personaggio di Antonio Pisapia, l'omonimo calciatore del Tony Pisapia cantante nel magnifico film "L'uomo in più".



Quarto grado. L'Italia mundial: Non ci prendono più.

"Nel calcio come nella vita" amava ripetere Nereo Rocco, il mentore dell'allora C.t. Enzo Bearzot. E nel calcio, come nella vita, la nazionale italiana ha sempre preferito riuscire nelle imprese più difficili. Maestri nell'attirarsi le antipatie estere, nel catturare l'astio della stampa e del tifo locale, nell'invischiarsi in scandali di proporzioni sempre maggiori (dal totonero al calcioscommesse attuale, passando per la costruzione degli stadi di Italia '90, per Luciano Moggi ed altre piccole e medie imprese), "Nel calcio come nella vita" solo con le spalle al muro e con la merda in una linea di galleggiamento ben più alta del sopportabile, l'Italia pallonara ha sempre trovato un modo per riscattarsi. E' un assioma trito e ritrito, ma, come ama ripetere un mio amico reduce dall'Afghanistan: "Se le dicerie esistono è perchè c'è sempre un fondo di verità." Ed io concordo con lui.
Comunque sia, gli azzurri arrivano in Spagna nell'estate del 1982 già con un discreto fondo di dissenso nella carta stampata, in particolare in quella capitolina che avrebbe voluto un numero di giallorossi più corposo rispetto ai soli due giocatori convocati, ovvero Conti e Graziani. Ma Bearzot non rinnegò le il suo credo e continuò ad affidarsi al cosiddetto blocco-Juve che comprendeva anche un certo Rossi Paolo che aveva appena finito di scontare la sua condanna per le vicende legate alla questione Totonero.


Il cammino degli azzurri nel girone eliminatorio fa piazza pulita anche dei pochi sostenitori rimasti: 0-0 con la Polonia del "bello di notte" Boniek, 1-1 col Perù (in gol Conti) e 1-1 col Camerun (a segno Ciccio Graziani). Qualificazione alla seconda fase solo per differenza reti e, per la prima volta nella storia della nazionale, il C.t. Bearzot impone il silenzio stampa. Non è un silenzio stampa totale, ma, dato che l'unico componente della squadra che ha il permesso di parlare con i giornalisti è il loquacissimo capitano Dino Zoff, è come se lo fosse.
Anche i sassi conoscono il prosieguo della storia, con le due vittorie nel girone di ferro con Argentina e Brasile e la rinascita di Paolo Rossi proprio contro i verdeoro.
Curiosità: il Brasile era così sicuro di sconfiggere l'Italia che aveva già prenotato l'albergo per il prosieguo del torneo. Inutile ricordare come i conti fatti senza l'oste siano rischiosi, tant'è che ancora oggi in Brasile la sconfitta con gli azzurri viene ricordata come la Tragedia del Sarriá.
In semifinale gli azzurri, ora idoli di tifosi ed addetti ai lavori, asfaltano la Polonia e vanno in finale contro la Germania Ovest.
L'11 luglio 1982 al "Santiago Bernabeu" di Madrid, l'Italia conquista il suo terzo titolo mondiale battendo 3-1 gli onnipresenti crucchi. La terza rete, quella che farà togliere la pipa di bocca all'indimenticato Sandro Pertini facendogli esclamare il famoso "Non ci prendono più", la segna "Spillo" Altobelli subentrato dopo pochi minuti in luogo di un Graziani maltrattato dalla difesa teutonica.



Quinto grado. Antonio Cassano: Fai pure con calma, io ti aspetto qui.

Nella notte tra l'11 e il 12 dodici luglio 1982, mentre l'Italia impazzita festeggiava la vittoria del mondiale spagnolo, a Bari vedeva la luce ed emetteva i primi vagiti (in dialetto barese strettissimo) un bambino che, a modo suo, avrebbe lasciato impronte indelebili nella storia del calcio: Antonio Cassano.
Lasciamo perdere l'infanzia in cui viene scartato (troppo piccolo, troppo brufoloso, troppo terrone) da Inter, Parma, Casarano e da un altro paio di squadre ed arriviamo a Bari-Inter-2-1 della stagione 1999-2000 in cui Antonio mostra il suo biglietto da visita a Laurent Blanc, Christian "Umiltè" Panucci e a Marcello Lippi: stop di tacco volante su lancio dalle retrovie, palla addomesticata con la testa, dribbling a rientrare sul destro e botta sul primo palo. Inter al tappeto, Bari in delirio e il figlio di Bari vecchia già proiettato nell'olimpo del calcio italiano. Poi, come chiunque mastichi un briciolo di pallone sa, Antonio passa alla Roma per una cifra vicina ai sessanta miliardi, litiga con Totti, con la società, coi tifosi, con Capello, fino a trasferirsi, nel gennaio 2006, nei galacticos di Madrid. E' leggermente sovrappeso (leggermente è un eufemismo bello e buono) e gioca col contagocce, perdendo così la possibilità di giocare il mondiale in Germania. Poi a Madrid ritrova Capello e, quando sembra che le cose stiano finalmente andando per il verso giusto, decide di sbeffeggiarlo in mondovisione con una delle sue imitazioni più riuscite.


Viene messo fuori rosa, ma grazie alle sette partite racimolate durante quella Liga riesce comunque ad intascarsi il premio-scudetto. Nell'estate duemilasette passa alla Sampdoria grazie ad una magia messa a segno dallo stratega dallo sguardo sbilenco che risponde al nome di Giuseppe Marotta. Al Doria Antonio mostra tutto il suo repertorio: giocate di classe sopraffina (al suo fianco Pazzini ha segnato tipo 50 gol in due anni. E ho detto Pazzini, non Gigi Riva), cambi d'umore improvvisi come i temporali di Cardiff ed, ovviamente, sceneggiate degne del leggendario Mario Merola.
E' il 2 marzo 2008 e la "summa Cassaniana" è servita. Sampdoria-Torino-2-2.
Il Torino va in vantaggio grazie alla dabbenaggine di Luca Castellazzi, che diviene bersaglio della gradinata blucerchiata. Antonio propizia il pareggio di Luigi Sala e corre ad abbracciare il portiere, cercando di spiegare ai tifosi che continuare a fischiarlo sarebbe stato controproducente per tutti. Poi, dopo il nuovo vantaggio granata, segna un gol delizioso con un colpo da biliardo di piatto destro. Per festeggiare, il genio, vuole spaccare la bandierina (come in un vecchio Roma-Juventus-4-0), ma la bandierina non si rompe e, anzi, rimbalza sul terreno andando poi a colpire Cassano sulle labbra, lasciandogli una bella ferita. Poi il sale sulla coda. Al minuto 87 ad Antonio viene fischiato un fallo inesistente dall'arbitro Pierpaoli. Vena chiusa e delirio puro. Guardare per credere.
"Io gli (all'arbitro ndr) avevo detto che facesse pure tutto con calma. Io l'aspettavo lì, nel sottopassaggio." Come a scuola o in discoteca.



Sesto grado. Eugenio Fascetti: De salvaetia cum penalitate.

Alla guida del Bari di fine secolo scorso, e contestualmente il primo a riconoscere e valorizzare il talento del giovanissimo Antonio Cassano, è un toscano spigoloso che, da sempre e per sempre, schiera che le sue squadre con l'1-3-4-2 (dove l'1 è l'oramai vetusto "libero staccato"): Eugenio Fascetti da Viareggio.


A Bari, Eugenio, costruisce l'ultimo miracolo di una carriera da allenatore che lo ha visto sempre peregrinare in squadre (provinciali o nobili decadute che fossero) in cerca non solo d'autore, ma anche di scenggiature e location decenti. Come primi exploit porta in B il Varese (annata 1979-80) e firma la prima storica promozione in A del Lecce (1984-85). Rimane ai salentini anche l'anno successivo non riuscendo a centrare la salvezza, ma impedendo (il dio pallone l'abbia sempre in gloria) alla Roma di vincere il suo terzo scudetto, sbancando per 3-2 l'Olimpico alla penultima giornata con una squadra matematicamente retrocessa. L'anno successivo, guarda te il destino, Fascetti si trova ad allenare proprio a Roma. Sponda Lazio, si capisce.
Preambolo: come accennato in precedenza l'Italia pallonara ha sempre convissuto con scandali vari e quell'estate non differì dalle precedenti nè da quelle che sarebbero venute dopo. Venne scoperto un giro di scommesse e "combine" (che prese poi il nome di Totonero-bis) che interessava una ventina di squadre professionistiche italiane e molti dirigenti e giocatori.
Piccolo OT: fu ritenuto colpevole e squalificato per tre anni il general manager del Foggia. Il suo nome? Chiedete a Galliani, e già che ci siete chiedete chi erano i Beatles, e lui vi risponderà: Ernesto "curo io i rapporti col mercato spagnolo" Bronzetti.
Rientrando in tema, Fascetti e la Lazio si trovano 9 punti di penalizzazione (giovi ricordare a chi legge che prima del campionato 1994-1995 le vittorie valevano ancora 2 punti) da scontare nella serie cadetta che andava cominciando. In soldoni i biancocelesti avevano un piede e mezzo in C1.
Partita fortissimo, ma calata alla distanza la Lazio raggiunge il quart'ultimo posto (che non garantiva la salvezza, ma la possibilità di andare agli spareggi) a pochi minuti dal termine dell'ultima giornata, battendo il Vicenza 1-0 all'Olimpico grazie ad una rete di bomber Fiorini.
Sul neutro di Napoli, la Lazio si trovò a spareggiare con Taranto e Campobasso. Una sorta di triangolare estivo che avrebbe deciso chi, delle 3, sarebbe finita nelle forche caudine della serie C1.
Biancocelesti k.o. di misura contro il Taranto (0-1) nella prima partita, con i rossoblù pugliesi che certificavano la propria salvezza pareggiando con il Campobasso nel secondo incontro. Nella terza e decisiva sfida, pochi cazzi per Lazio: solo una vittoria avrebbe evitato l'umiliazione della retrocessione.
E, sostenuta da 40000 tifosi accorsi al San Paolo, l'aquila biancoceleste piega di misura il Campobasso con un gol di Fabio Poli.


L'anno successivo, senza penalità e con una proprietà più generosa, Fascetti riportò la Lazio nella massima serie in cui ancora si trova.
Nota di colore sulle simpatie politiche del buon Eugenio: una volta, commentando a "stadio Sprint" la classifica del suo Bari a quel tempo ottavo, disse: "L'unica volta che mi sento di sinistra è quando guardo la classifica."

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